9 maggio 2019



Nel mondo scientifico Lamezia Terme ha un posto speciale sulla mappa dei centri che studiano e curano le malattie del cervello umano. Il merito è di una donna preparata e appassionata che ha fondato e dirige il Centro regionale di neurogenetica. La neurologa Amalia Bruni, 64 anni splendidamente compiuti, è tra «i detective» che nel 1995 hanno individuato, dopo un decennio di romanzesche ricerche in collaborazione con diversi istituti, la presenilina-1: il «gene» più diffuso dell’Alzheimer. È vero che la forma più frequente di demenza ha una «origine» genetica soltanto nel 2-3 per cento dei casi. Ma è proprio dal loro studio che sono scaturite molte delle conoscenze di cui disponiamo oggi sulla malattia che colpisce almeno 600mila persone solo in Italia.

La dottoressa Bruni è una che cammina controvento. Membro del comitato scientifico dell’Istituto superiore di sanità, presidente eletto della SinDem (società italiana di neurologia delle demenze), a Lamezia guida una squadra di esperti e operatori che lavorano in un’ala dell’ospedale Giovanni Paolo II. Cinque anni fa, quando l’abbiamo conosciuta, la dottoressa era preoccupata per la fuga dei cervelli e la scarsa rilevanza attribuita alla ricerca scientifica in Calabria (e più in generale in Italia).
Come siamo messi oggi?

«Peggio. È sempre più difficile trattenere i giovani capaci che le università continuano a formare. Dalle amministrazioni pubbliche si fa fatica ad avere i soldi per acquistare materiali di laboratorio, figuriamoci per finanziare progetti di ricerca. Che sono investimenti a lungo termine, è vero, ma costituiscono l’unica speranza di un futuro possibile».
Però il vostro centro continua a lavorare...

«La buona notizia è la fatica che si fa tutti i giorni: c’è ancora qualcuno tra questi giovani che nonostante tutto (e “nonostante” sarebbe da scrivere a caratteri cubitali) ha deciso di restare, di continuare a crederci. Il risultato è che un centro come il nostro vive grazie a una larga fascia di precariato non ancora strutturato. E sulla carta c’è un percorso che deve ancora essere completato».

Quale percorso?

Quello per essere finalmente considerati Irccs. In Italia ci sono tre tipi di realtà riconosciute come enti di ricerca: le università, il Cnr e gli Istituti di ricerca e cura a carattere scientifico, gli Irccs appunto. L’unica cosa che può dare speranza e futuro al nostro centro è che venga inserita all’interno di questo circuito nazionale degli Irccs».

E a che punto siete?

«Come in un matrimonio: abbiamo avviato i preliminari, poi i corteggiamenti. Adesso i vari enti decisori (i parenti degli sposi) sembrano tutti d’accordo. Ma come al solito le pubblicazioni dei matrimoni, le questioni burocratiche, le carte, sono le cose più complicate».

Servirà anche una dote...

«Speriamo che si arrivi alle nozze con una dote da parte della Regione Calabria, che vuole salvare questa struttura in maniera definitiva».

Che cosa fa il vostro centro?

«Si occupa di malattia neurodegenerative, in particolare di demenze. Lo fa prendendo in carico i pazienti e dunque anche i familiari, anche con iniziative di natura sociale, come gli Alzheimer Caffè o il centro diurno che abbiamo creato anni fa, pur nel vuoto di una regione che continua a programmare sulla carta ma fatica a concretizzare. A Casa Alzal riusciamo a offrire un’accoglienza e un servizio di natura non solo sanitaria ma anche sociale».

E poi c’è la ricerca.

«Che rimane fondamentale. Vediamo pazienti che vengono da tante parti. Ma siamo interessatissimi al dna della popolazione calabrese, che è particolare e variegato. Un esempio recente: c’è un gene coinvolto nell’Alzheimer di tipo genetico, l’App (proteina precursore della beta amiloide), di cui abbiamo identificato una mutazione che nel mondo stiamo descrivendo solo noi, e che si è originata proprio in Calabria. Questi studi non hanno un sapore localistico ma diventano scienza, patrimonio di tutti».

Negli ultimi anni la ricerca nel campo delle malattie neurodegenerative ha registrato tanti progressi ma anche molte delusioni. Si avverte quasi una sorta di pessimistica stanchezza...

«Sono malattie complesse, ognuna nella sua specificità, con quadri clinici molti diversi e patogenesi che non sono state ancora comprese del tutto. Diciamo che nella ricerca c’è stata una semplificazione eccessiva a fronte di una complessità della malattia che non è stata studiata a sufficienza».

Però...

«Però la ricerca è senza ombra di dubbio l’unico strumento che dà la speranza di un futuro. È sbagliato ridurre la malattia di Alzheimer al suo aspetto sociale. Perché è più che giusto che noi diamo a pazienti e famiglie l’afflato di una collettività intera che li sostiene. È necessario combattere lo stigma, cercare di “normalizzare” il più possibile la vita delle persone affette. Ma dobbiamo sempre pensare che siamo di fronte a una malattia».

C’è qualcuno che lo dimentica?

«Di fronte a certe operazioni culturali, c’è chi può pensare che non valga più la pena di investire in ricerca e in medicina. Tanto vale assumere solo assistenti sociali...».

Sociale e sanitario devono andare a braccetto.

«Certamente. Senza dimenticare che le malattie neurodegenerative sono patologie. Il fatto che siano molto frequenti non vuole dire che non lo siano. È come un’epidemia di varicella. Tutti hanno la varicella. Ma non si tratta di una cosa normale, si tratta di una malattia. Questo vuole dire, per esempio, che le diagnosi devono essere fatte. Ci sono medici che continuano a non voler fare le diagnosi, magari anche perché non le sanno fare. “Tanto che cosa cambia?”, dicono. Cambia l’epidemiologia, cambia il quadro clinico, e la possibilità di risposte adeguate».

L’Alzheimer fa meno paura di prima? La società è più pronta a farvi fronte?

«Resta ancora il problema dello stigma. In qualsiasi classe sociale. Compresa la classe dei medici: ci sono quelli che non vogliono affrontare la malattia dei loro stessi genitori. Dicono: “E se anche abbiamo la diagnosi, poi che cosa facciamo? Che cosa cambia? Cambia che a mio padre tolgono la patente...”. Insomma, è complicato. Ma passo dopo passo, si va avanti. Tenendo insieme la medicina e la normalità del vivere».

Amalia Bruni è fatta così. Rigore e passione. Una che cammina controvento. Ma non smette di camminare.

Fonte: https://www.corriere.it/buone-notizi...a2d19_amp.html